Il calice di Canepina del 1400 nel Museo del colle del Duomo

Fu portato nella Curia di Viterbo per essere custodito durante i lavori
di restauro della chiesa Collegiata degli anni Sessanta e non è più tornato

UNA STORIA AL GIORNO… TOGLIE IL VIRUS DI TORNO

Il calice e la patena della chiesa dell’Assunta di Canepina (1400).

CANEPINA – «Il ’400 a Roma e nel Lazio»: questo il titolo del grande ciclo di mostre organizzato a partire dal 1980 in varie località della Regione, tra cui Viterbo. In esposizione c’erano praticamente tutte le attività artistiche svolte dall’uomo nel XV secolo, tra le quali aveva un posto di primo piano l’oreficeria. Uno dei pezzi selezionati dagli esperti dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Roma, del ministero dei Beni Culturali e della Soprintendenza competente era il «Calice della chiesa dell’Assunta di Canepina», al quale, nel voluminoso catalogo della mostra, furono dedicate due pagine e alcune immagini. Il calice, ritenuto una vera e propria opera d’arte, è stato accostato al grande orafo Archimanno di Battista o alla sua bottega ed è considerato uno degli esempi più significativi della cosiddetta scuola orafa viterbese del 1400.

Il medaglione della base del calice dell’Assunta raffigurante Santa Corona.

Il calice, di cui seguirà un’accurata discrezione, è attualmente esposto nel Museo del Colle del Duomo di Viterbo, in una delle sale del secondo piano, in una teca di cristallo. Fino al 2000, prima che fosse inaugurato il museo, era custodito in una cassaforte con altre decine di opere d’arte nella curia vescovile. Ma come ere finito a Viterbo quel calice conservato per cinque secoli e mezzo dai canonici della Collegiata? I fatti: alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, a seguito del crollo di una parte della volta della chiesa, costruita nel 1816 per rendere l’edificio «alla moda», iniziarono i lavori di ripristino, peraltro necessari da molto tempo, che si protrassero per circa 18 anni. Il calice fu così portato nella curia vescovile dove è rimasto. Probabilmente è stato un bene visto la fine che fecero il grande organo che si trovava sopra la porta d’ingresso, il pulpito in legno che circondava l’ultima colonna a sinistra della navata centrale, le balaustre dell’altare maggiore in marmo, i confessionali del 1700 e chissà quanti altri oggetti sacri o profani. Purtroppo, nella medesima circostanza fu rimosso anche il grande archivio parrocchiale, citato come esempio di «diligenza e avvedutezza» in alcune visite pastorali. Fu ammucchiato alla rinfusa nella chiesa di San Pietro, dove in parte marcì e in parte fu saccheggiata. Quel che restava fu infine portato nelle soffitte del Comune dove, malgrado l’inidoneità dei locali, è stato almeno riordinato.

Particolare dl nodo del calice dell’Assunta di Canepina.

Alla fine degli anni Sessanta e nei Primi anni Settanta del ’900 furono compiuti dei timidi tentativi di riportare il calice quattrocentesco a Canepina, ma la Curia fu irremovibile. L’unica concessione fu la possibilità di usare l’oggetto sacro in circostanze particolari: le messe di Santa Corona e dell’Assunta, qualche matrimonio e poco altro.

Il calice quattrocentesco, in argento e argento dorato, è caratterizzato da una base contenente sei medaglioni entro i quali son raffigurati Santa Felicità, Cristo Crocifisso, San Giovanni, Santa Barbara, la Madonna e Santa Corona, patrona del paese, con la palma del martirio in una mano. Le figure sono incise con precisione e erano contornate di smalti colorati, di cui restano solo piccolissime tracce.  Nel nodo con fondo dorato ci sono altri sei medaglioni esagonali in cui sono raffigurati: la Pietà di Cristo, San Giovenale, San Sebastiano, San Paolo, Sant’Antonio e San Pietro. Nella sottocoppa ci sono tre teste di cherubini alati (una delle quali capovolta). Probabilmente il calice ha subito un «incidente» giacché il nodo si innesta leggermente di traverso sul piede, coprendo in parte alcune placchette. Un particolare che, vista la precisione e l’accuratezza dell’opera, potrebbe ragionevolmente far presumere che si tratti di una riparazione.

Non è possibile accertare né da chi né perché fu fatto realizzare il calice: l’unica ipotesi che potrebbe avere un qualche fondamento è che sia stato commissionato in concomitanza del completamento della Collegiata, avvenuto nel 1497. Ma in questo caso l’accostamento ad Archimanno o alla sua bottega cadrebbe, poiché l’orafo viterbese era morto da almeno tre decenni.  A svelare il mistero dell’origine del calice potrebbe essere lo stemma bipartito inciso su una delle placchette che decorano il busto. Stemma che presenta quattro croci nel campo superiore e tre in quello inferiore. Ma nessuno degli esperti di araldica finora consultati ha potuto individuare a chi apparteneva.

APPENDICE

La copertina del catalogo del Museo del Colle del Duomo di Viterbo.

Ora si rende necessaria un’appendice che mi obbliga a violare una regola aurea del giornalismo che ho sempre rispettata: non scrivere mai in prima persona. Ma in questo caso è assolutamente necessario. Nel 1996, l’allora vescovo di Viterbo Fiorino Tagliaferri, uomo di grande fede e di sterminata cultura, decise di costituire un comitato ristretto per ideare qualche iniziativa in vista del Grande Giubileo del Duemila. Chiamò a farne parte: Aldo De Matteo, senatore ed ex presidente nazionale delle Acli, Carlo Cardoni, il primo e più importante PR di Viterbo, Alessio Paternesi, pittore e scultore di fama internazionale, e, che Dio lo perdoni, il sottoscritto. In rappresentanza del vescovo fu nominato monsignor Salvatore del Ciuco. A me, tra l’altro, fu conferito l’incarico di tenere un diario di tutte le attività del comitato da cui far scaturire una o più pubblicazioni. Una freddissima mattinata del febbraio 1996, sul ponte che collega piazza della Morte a piazza San Lorenzo sferzato dalla tramontana, scoccò la scintilla: «Proponiamo un museo in cui custodire una grande quantità di opere d’arte custodite nella curia vescovile, ora invisibili a tutti» esclamò Paternesi. Nacque così l’idea del Museo del Colle del Duomo. L’anno dopo, la Regione Lazio, presieduta da Piero Badaloni, finanziò il progetto. Ancora pochi mesi e iniziarono i lavori di recupero di alcuni antichi locali sul retro del duomo di Viterbo, abbandonati da decenni e in parte cadenti. Quando i lavori furono pressoché ultimati e a monsignor Fiorino Tagliaferri era subentrato Lorenzo Chiarinelli, si passò all’allestimento. Io fui incaricato di curare il primo sommario inventario delle opere esposte nonché di ricordare come si era arrivati alla costruzione del Museo. Fu allora che un rappresentante della Soprintendenza, nello scegliere i pezzi da esporre nelle teche, voleva escludere il calice dell’Assunta poiché, a suo dire, sarebbe stato meglio esporre solo oggetti provenienti da Viterbo. Seguì uno scambio di vedute, per così dire, vivace con il sottoscritto. Fu una fatica, ma alla fine venne esposto il calice di Canepina. A proposito, quel funzionario si chiamava Giovani Fatica.

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