Chi viveva tra il Rio Cornieta e il Rio Maggiore
prima della fondazione di Canepina? (parte prima)
Vari studi confermato la presenza umana nel territorio oltre mille anni prima
che i di Vico fondassero il Castrum nell’XI secolo con il consenso del papato
UNA STORIA AL GIORNO… TOGLIE IL VIRUS DI TORNO
CANEPINA- Cosa c’era prima del 1000 dove è ora Canepina? L’area era abitata sebbene non esistesse un vero centro? Il territorio, ricco di acqua e di prezioso legname, era già sfruttata dagli uomini? Gli storici danno una risposta univoca: sì! A questo punto s’impone un altro interrogativo: chi erano gli abitanti più o meno stanziali dell’area? Anche qui la risposta degli studiosi è netta: i Falisci, quel popolo strettamente connesso con gli Etruschi che risiedeva nell’Ager Faliscus (l’Agro Falisco), tra riva destra del Tevere, che ne segnava il confine orientale, nella zona compresa tra Grotta Porciosa a nord e Capena a sud. A sud-ovest i confini erano rappresentati dalle pendici dei monti Sabatini, mentre a nord-ovest erano i monti Cimini. Oggi, l’Ager Faliscus ricade nelle province di Roma e Viterbo. I Falisci erano confinanti con gli Etruschi ad ovest e a nord, con gli Umbri a nord-est, i Sabatini ad est, e i Capenati a sud.
La storia dei Falisci è direttamente legata a quella degli Etruschi dei quali erano alleati, insieme con gli abitanti della vicina Capena (i Capenati), a partire dal V secolo a.C., quando iniziano le lotte contro Roma. Le analogie tra i Falisci e gli Etruschi erano tali che lo storico romano Tito Livio (59 a.C. – 19 d.C.) li definiva un solo popolo, tanto che i primi partecipavano con i secondi ai concili federali presso il Fanum Voltumnae, il santuario «nazionale» etrusco. Lo stesso Tito Livio, nell’opera Ab Urbe Condita, descrive così l’area dei Cimini dove, alcuni secoli dopo, sorgerà Canepina: «Silva erat Ciminia magis tum invia atque horrenda quam nuper fuere Germanici saltus, nulli ad eam diem ne mercatorum quidem adita» (In quel tempo la selva Cimina era più impervia e spaventosa di quanto non siano di recente sembrate le foreste della Germania, e fino ad allora non l’aveva mai attraversata nessuno, nemmeno dei mercanti).
Le asserzioni degli storici sono, come è ovvio, suffragate da prove: in primo luogo il Santuario delle Acque dell’Arcella. Si tratta di un grande blocco di lava cimina, di forma approssimativamente triangolare (metri 4,40 x 4,15 x 5); la faccia rivolta ad Ovest presenta, entro una cornice rettangolare, un’iscrizione di dedica su cinque righe, connessa al culto delle acque che, nelle immediate vicinanze, sgorgavano da varie sorgenti naturali e venivano immesse in un sistema di cunicoli. Questo il testo dell’Arcella:
Bonae Valetudini sacr(um)
Cn(aeus) Pacilius Marna sev(i)r
Sutrio, Aug(ustalis) Faleris ex voto.
Pacilia Primitiva bona(a)e Bonad-
iae Castre(n)si ex voto sacrum.
Alla buona Salute Consacrato
Gneo Pacilio Marna, sèviroa Sutri,
augustale a Faleri per promessa (fatta)
Pacilia Primitiva alla buona Bona-
dia Castrense per promessa consacrato.
Il monumento, ampiamente studiato e oggetto di pubblicazioni, risale al II secolo d.C.. Già il Santuario delle Acque dell’Arcella dimostra ampiamente come il territorio che diventerà Canepina fosse in qualche modo «usato» dagli uomini. È altresì evidente che se nel II secolo d.C. l’area dell’Arcella venne consacrata alla Bona Dea, la presenza umana doveva necessariamente essere antecedente.
C’è poi un altro studio condotto a Canepina dall’Accademia dei Lincei (allora Regia Accademia), risalente ai primi anni del 1900, che conferma in modo inequivocabile la presenza umana in zona. Presenza che, peraltro, viene anticipata di tre-quattro secoli rispetto al monumento dell’Arcella. La ricerca «sul campo» fu eseguita dal professor Ugo Antonielli, uno dei più importanti archeologi italiani, accademico dei Lincei e direttore del Museo Nazionale Preistorico Etnografico di Roma. Lo studioso fu invitato a Canepina dal professor Giacomo Rem-Picci al fine di studiare e datare numerosi manufatti sparsi in un terreno di sua proprietà in contrada «Mignone», per l’esattezza laddove oggi sorge l’Agriturismo Casal Grande. I sorprendenti risultati del sopralluogo, che durò alcuni giorni, furono pubblicati negli «Atti della Regia Accademia dei Lincei, Volume L (XXII della serie V) fascicoli 1°, 2°, 3° (Notizie degli scavi di Antichità)».
La relazione del professor Antonielli è lunga ma è utile riportarla integralmente al fine di evidenziare l’importanza storico-archeologico-culturale del luogo e dei manufatti. Il testo, intitolato «Vasche per macerazione di vegetali» dice: «L’egregio professor Giacomo Rem-Picci informò la soprintendenza dell’esistenza, nella sua proprietà in contrada Mignone, di un grande numero di bacini o vasche ricavate nella pietra vulcanica locale, aggiungendo che non sapeva spiegarsi il fatto del loro numeroso raggruppamento in quel luogo. Recatomi sul posto e guidato dal colto proprietario, potei constatare che le vasche componevano veramente un numeroso e interessante gruppo, limitato a una ristretta zona.
Il paesaggio della detta contrada, come del resto in tutta la circostante regione dominata dal Cimino, è oltremodo pittoresco: le pendici montane sono rivestite da folti castagneti, mentre in basso, nelle fende e strette vallate, scorre risuonante, l’acqua di rivi scendenti al Tevere. Il luogo preciso in cui le vasche si trovano, sia sparse che riunite in gruppi, è un vero cucuzzolo sorgente tra il paese di Canepina e le pendici del monte Monterone e limitato in basso da due vallette, delle quali la più grande è percorsa dal Rio Corniente, che nelle carte militari è chiamato Rio Cannucce. Grandi ammassi di roccia vulcanica, in qualche punto dirupati e con larghi crepacci, affiorano sui pendii delle alture. Sulla cui massima quota, toccante i 500 metri all’incirca, sorge dominante una casa colonica attaccata a una vetusta chiesetta campestre ora non più funzionante. Questo punto e la costruzione abbastanza antica possono anche indicarci il sito di un’antichissima abitazione, del piccolo centro rurale cui, come vedremo, le vasche si ricollegherebbero. Dalla detta massima quota, specie nella parte orientale volta al Cimino, il pendio scende rapido e scabroso al fondo della valletta.
A mezza costa, e in giro, ora isolate e ora raggruppate, trovansi le vasche che qui dobbiamo illustrare, contate in numero di 24, più o meno grandi, più o meno conservate, e con qualche variante di struttura. Infatti, possiamo fissarne di tre tipi. Il primo, rappresentato da pochi esemplari, consiste in una vera e proprio <scodella>, cioè un incavo a catino fatto in un blocco di pietra affiorante. Il secondo è dato da numerosi bacini di forma irregolarmente quadrilatera, anche con angoli arrotondati, tra cui alcune addirittura circolari; sono molto fondi e ricavati con l’escavazione in massi affioranti e di considerevole grandezza. Questo secondo tipo è, si può dire,
l’ascendente di quello più complesso e regolare, che citiamo come terzo. Quest’ultimo, rappresentato da esemplari riproducenti con uniformità le caratteristiche sostanziali, comprende vere e perfette vasche, isolate, costruite mediante la regolarissima scalpellatura di grandi blocchi staccati, sia naturalmente che a bella posta; sono tutte rettangolari e squadrate con cura, molto donde o capaci dei precedenti bacini, e munite di un importante particolare d’aggiunta. Tanto i bacini di secondo tipo, quanto le perfette vasche, hanno un foro di uscita: semplicissimo; ricavato perforando un lato, nei primi; più complesso nelle seconde, in cui si presenta come un interessante particolare di perfezionamento. Trattasi di una sporgenza lasciata durante il lavoro di scalpellatura, che ha appianato uno dei corti delle vasche; sporgenza che è solcata da un incavo semicircolare, corrispondente al fono che trapassa la parete. In conclusione, abbiamo una vera e propria gronda.
Non essendo opportuno indicare le misure di tutte e 24 i bacini e vasche, mi limiterò a dare la descrizione degli esemplari più notevoli, che serviranno alla perfetta conoscenza dell’insieme.
I – (1° tipo) Scodella incavata in blocco affiorante, del diametro massimo (alla superficie appianata del masso) di metri 0,60, profonda al centro dell’incavo metri0,18;
II (2° tipo) Bacino di forma irregolare circolare, ricavato in un masso affiorante, con diametro di metri 1,00 -, 0,90 – 0,85; profondo all’incirca metri 0,25, e con foro semplice da un lato. Può ben dirsi scavato in situ;
III (2° tipo) Bacino quadrangolare, ma con angoli arrotondati, anch’esso ricavato in un grande masso affiorante; misura metri 1,70 per 1,40 ed è profondo da metri 0,50 a metri 0,55, poiché la superfice del masso e il fondo dell’incavo sono inclinati. È rotto nella parte più bassa, dove certamente era praticato il foro;
IV – (2° tipo) Bacino irregolarmente quadrilatero, scavato in situ, in un grandioso masso affiorante; misura metri 1,70 per metri 1,20; è profondo metri 0,35 e ha un foro semplice da una parte:
V – (3° tipo) Grande vasca isolata, costituita incavando e scalpellando un grosso blocco staccato. È alto, nella parte esterna, da metri 0,60 a metri 0,70, lunga metri 1,60 e larga metri 1,35 con una profondità di metri 0,45, misurata dall’orlo del foro di scolo, praticato in un dei lati corti. Il foro riesce nel canaletto incavato, come sopra è stato già detto, nella <gronda>, che è larga metri 0,35 e sporgente metri 0,30 all’incirca. Le pareti della vasca, sia dentro che fuori, sono scalpellate o lisciate con tutta regolarità; il loro spessore varia da metri 0,15 a metri 0,18; gli orli sono appianati.
Quest’ultima descrizione, tranne le misure e trascurabili particolarità, si può adattare comodamente a tutti gli altri esemplari del tipo. Non ne descriverò quindi altre; ma solo indicherò le misure di due altre: A) vasca lunga metri 1,70, larga metri 1,20, profonda metri 0,65 con foro e gronda e con gli orli lasciati grezzi; B) vasca lunga metri 1,55, larga metri 1, profonda metri 0,45, con pareti spesse metri 0,10 circa, alte all’esterno metri 0,70 e con foro e gronda. Questa ha per altro di notevole che il foro e la gronda sono con centrati, come nelle altre, ma situati di lato. E poiché il fondo della vasca non è piano, ma leggermente arcuato, se che l’altezza della parete interna è minore presso uno degli spigoli e propriamente quello verso cui sono addossati il foro e la gronda, ne consegue che lo spostamento fu voluto al fine di meglio permettere lo scolo.
Ben nove di questi massi incavati ancora trovansi vicini e componenti un gruppo, a mezza costa sul Cornienta. La vasca citata alla lettera B) trovansi non più al suo posto originario; essa fu trasportata dai contadini sotto il muro della casa colonica e quivi usata come conserva dell’acqua, dopo avere otturato il foro con cemento. Similmente, un’altra consimile vasca, lunga metri 1,45, larga metri 1,15 profonda metri 0,36, è stata messa in uso per pigiarvi le uve; e uno dei contadini del luogo ha assicurato che essa può contenere sino a sei quintali di uva pigiata».
CONTINUA
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