L’eterno scontro tra «mangiapreti» e «papalini» a Canepina
Nemmeno l’annessione del Lazio al Regno d’Italia pose fine alle contese
UNA STORIA AL GIORNO… TOGLIE IL VIRUS DI TORNO
CANEPINA – «Talvolta la Chiesa è arrivata in ritardo, con evidenti anacronismi, per questo dico che essa avrà sempre bisogno delle suggestioni e degli slanci del mondo laico, ma il mondo laico avrà sempre bisogno di quel supplemento di umanità, di fratellanza e di solidarietà che solo il cristianesimo sa offrire». Questa illuminata e illuminante conclusione cui era giunto don Andrea Gallo non sarebbe mai stata accolta da quei canepinesi (ma la considerazione può essere estesa a tutt’Italia), laici e cattolici, che si sono sempre guardati in cagnesco e spesso sono venuti alle mani più per motivi politici che religiosi. La storia di Canepina, dal Risorgimento in poi, è costellata di episodi da guerra fredda ante e post litteram.
Ecco una breve successione dei fatti più eclatanti, o singolari, avvenuti in paese dal 1848, anno bisestile, in cui si ebbero moti rivoluzionari in tutta Europa, ai primi anni del 1900.
Il 23 marzo 1848, giorno dell’iniziò della Prima Guerra d’Indipendenza italiana contro l’Impero austriaco, un folto gruppo di patrioti canepinesi si riunì sotto il palazzo comunale urlando slogan contro l’Austria. Qualcuno di loro, «sopraffatto dal vino», come scrivono i gendarmi in un rapporto, cambiò il destinatario delle invettive, passando dall’Imperatore d’Austria al papa, dall’esercito austriaco al clero nella sua interezza. Nella piazza, sempre stando al rapporto, risuonò anche qualche bestemmione. Una pattuglia della gendarmeria, richiamata dagli schiamazzi, fece irruzione, un manifestante fu fermato: Giovanni Procaccioli, probabilmente il più «sopraffatto dal vino». Arrestato fu rinchiuso nel «carcerale», così veniva chiamato il palazzotto cinquecentesco in via Conce che ospitava alcune celle, distrutto dal bombardamento del 1944.
Tutti gli altri l’avevano fatta franca. O almeno così speravano. Ma si sbagliavano. In un appartamento di via Torrione, le cui finestre si affacciavano proprio sulla piazza del Comune, erano riuniti un gruppo di «papalini», che annotarono con scrupolo i nomi di tutti i partecipanti alla manifestazione e li passarono alla gendarmeria. L’indomani mattina finirono al «carcerale» altre diciotto persone. In un primo momento costoro pensarono che a fare la «soffiata» fosse stato il Procaccioli, ma quando vennero condotti a Soriano nel Cimino per essere processati seppero come erano andati i fatti e i nomi dei «delatori». Furono tutti condannati a pene più o meno lunghe. Il 28 ottobre successivo, giorno in cui tornò in libertà l’ultimo dei condannati, adagiati al muro del comune, furono trovati dodici «rocchi» di legno, su ognuno dei quali era stato affisso un foglietto con un nome: Domenico Pizzi, Alessio Petti, Nicola Bolognesi, Pietro Paolo Moneta, Pasquale Corsi, Mariano Testa, Ottavio Savj, Domenico Petti, Vincenzo Fiorentini, Nicola Pesciaroli, Francesco Corsi, Francesco Fiorentini. Sotto ogni nome la stessa frase: «Spia». Inutile aggiungere che erano i firmatari della delazione.
Negli anni seguenti, di fatti del genere, a parti rovesciate, ce ne furono altri. Il più clamoroso, che sfociò in un processo con numerosi imputati, risale ai primi anni del 1900. Benché Canepina fosse stata annessa alla diocesi di Viterbo da papa Gregorio XVI, i legami dei fedeli con la curia di Orte e Civita Castellana erano rimasti saldi. Così, nel 1908, quando si svolse proprio a Orte il Congresso Eucaristico, moltissimi canepinesi, sollecitati dall’arciprete don Emidio Moscatelli, parroco della Collegiata di Santa Maria Assunta, raggiunsero Orte con ogni mezzo: carri, «barozze» e perfino a piedi. Nel tardo pomeriggio il ritorno a Canepina. Quando la lunga teoria di fedeli oranti, superato l’abitato di Vallerano e poi la chiesetta di sant’Antonio, era entrata nel territorio di Canepina, si vide piovere addosso uova, frutta marcia, scarti di verdura e perfino del letame. Nel fuggi fuggi generale che si scatenò, alcuni caddero a terra rimanendo leggermente feriti, altri persero degli oggetti. Lo stesso arciprete si trovò con la tonica sgarrata.
Alcuni giorni dopo, i gendarmi riuscirono ad individuare almeno una parte degli autori dell’agguato i quali, messi alle strette, confessarono. Dopo qualche settimana, assalitori-imputati e assaliti–parti lese, si ritrovarono nella pretura di Soriano nel Cimino dove fu celebrato il processo. Il pretore chiamò a deporre, tra gli altri, Marino Marini, noto socialista e mangiapreti, considerato il «caporione» dei «senza Dio». Alla domanda su perché aveva partecipato e, forse, organizzato l’assalto, egli rispose: «Signor Pretore, siamo dovuti intervenire per interrompere i loro canti offensivi per noi e per tutti i patrioti». «E perché erano offensivi? Cosa mai cantavano?» rintuzzò il pretore. «Cantavano <Noi vogliam Dio per nostro padre, noi vogliam il Papa per nostro re>. Capisce signor Pretore che sono parole inammissibili per un italiano e offensive per i nostri martiri». Furono tutti assolti. Mentre i «mangiapreti» festeggiavano l’assoluzione e i «papalini» si guardavano esterrefatti l’uno l’altro, ci fu un accenno di rissa tra le due fazioni. Il pretore intervenne immediatamente. «Se proprio avete voglia di menarvi – urlò – fatelo fuori da qui, dove nessuno possa vedervi. Non ho alcuna voglia di fare un altro processo del genere».
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