Blitz anti brigantaggio a Canepina all’alba dell’8 agosto 1867

Furono arrestati cinque persone compreso un Canonico della Collegiata
Secondo l’accusa avevano favorito la latitanza di un pericoloso brigante 

UNA STORIA AL GIORNO… TOGLIE IL VIRUS DI TORNO

Il frontespizio del processo contro i cinque canepinesi accusati di brigantaggio.

CANEPINA – Non appena la luce dell’alba iniziò a dissipare il buio della notte, decine di guardie pontificie, in armamento da guerra, entrarono in paese. Ad attenderle c’erano i gendarmi della brigata di Canepina al comando del brigadiere Francesco Del Monte. Era l’8 agosto 1867. Subito dopo ebbe inizio quello che oggi si definirebbe un blitz. A gruppi di sei-sette, i gendarmi, guidati dai colleghi locali che conoscevano bene gli indirizzi cui recarsi, bussarono alle porte di cinque case per eseguire altrettanti ordini di cattura. Un paio d’ore dopo, nella caserma della gendarmeria, con i ferri a polsi, cerano:

Nicola Erasmi di Angelo, 23 anni, celibe, pastore;

Angelo Erasmi, detto «Capoccia», 47 anni, coniugato con 6 figli, tra cui Nicola, pastore;

Giuseppe Benedetti, detto «Giovanella», 45 anni, coniugato con 4 figli, pastore proprietario;

Antonio Moneta, 35 anni, coniugato, pastore;

Don Nicola Savi, 50 anni, Canonico.

Contemporaneamente, a Monte Romano, fu arrestato Nicola Erasmi di Antonio, 30 anni, domiciliato a Bagnaia, celibe,«bifolco», a servizio presso la tenuta Farnesiaca (cugino dell’altro Nicola Erasmi arrestato a Canepina).

Per tutti l’accusa era: «Dolosa ricettazione del brigante Policarpo Romagnoli, ossia di complicità». Avevano, secondo le forze dell’ordine, «coperto» la latitanza di uno dei più pericolosi briganti dell’ex Regno delle due Sicilie. Costui, dopo una serie di scontri armati con i gendarmi che lo inseguivano, alcuni dei quali restarono uccisi o feriti, riuscì avventurosamente ad arrivare sulla montagna di Canepina.  Romagnoli, nonostante la giovane età, aveva 25 anni, era stato già condannato più volte a morte o all’ergastolo per i gravi delitti compiuti in provincia di Chiesti, in Abruzzo. Inoltre, su di lui pendevano vari ordini di cattura per i reati commessi dal 1866 in poi, dopo che era riuscito a varcare il confine dello Stato Pontificio.

Romagnoli, soprannominato «Filomeno», originario di Atessa (Chieti), si era «arruolato» poco più che adolescente nella famigerata banda del trio Cipriani – Cannone – De Vito, che per anni aveva insanguinato il Regno di Napoli ancor prima dell’annessione all’Italia. Con passare del tempo, le leggi italiane finalizzate a reprimere il brigantaggio diventarono sempre più severe. Allo stesso tempo aumentò in modo esponenziale il numero dei gendarmi impegnati nella caccia ai briganti. Romagnoli, divenuto il numero due della banda composta da oltre trenta individui, nel corso di uno dei tanti scontri armati, rimase isolato dai suoi sodali. Armato fino ai denti e pieno di soldi, all’inizio del 1967 riuscì ad arrivare nella campagna romana, dove commise alcune «grassazioni», poi si spostò a Civitavecchia, infine a Viterbo e quindi sul monte Cimino, tra Canepina e Caprarola.  Le gendarmerie della zona erano state allertate del suo possibile arrivo, tanto che la sera del 31 luglio, una pattuglia guidata dal brigadiere Francesco Del Monte lo intercettò alla periferia di Canepina. Ci fu un violento confitto a fuoco, durante il quale il brigante rimase ferito a una gamba, ma riuscì a dileguarsi.  Si saprà durante il processo che ad aiutarlo a fuggire fu Nicola Erasmi. Il 5 agosto successivo, grazie a una «soffiata», fu catturato nel territorio di Carparola. I gendarmi lo trovarono carico di denaro nonché armato di un revolver a dodici colpi, un lungo coltello, una doppietta e una ventriera piena di cartucce.

Una pagina del processo contro i cinque canepinesi accusati di brigantaggio.

Iniziarono così le indagini per individuare chi, a vario titolo, per circa due mesi, aveva aiutato Romagnoli durante la latitanza. Una confidenza qua, una promessa d’impunità la, i gendarmi riuscirono a ricostruire quasi tutte le sue mosse e a individuare chi aveva incontrato e chi, in cambio di soldi, gli aveva procurato vitto, alloggio, vestiti e perfino una compagnia femminile. Vieppiù, si scoprì che durante la latitanza, Romagnoli era stato molte volte a Canepina, dove aveva frequentato senza problemi numerose case, compresa quella del Canonico don Nicola Savi. A quest’ultimo, in particolare, si era rivolto per ottenere un salvacondotto, con il quale avrebbe voluto girare liberamente. Ma non riuscì ad ottenerlo poiché, come gli spiegò lo stesso canonico «non esiste un salvacondotto del genere». Don Nicola Savi si difese dall’accusa asserendo di non aver saputo chi fosse realmente «quell’uomo dai modi compiti, gentile e generoso».

Le accuse più gravi furono contestate a Nicola Erasmi di Angelo. Fu lui, secondo l’accusa, ad averlo ospitato nella capanna in montagna dove viveva nei mesi estivi, mentre si occupava del gregge di pecore di proprietà di Crispino Petti. Sempre lui gli aveva procurato il cibo. Ancora lui accompagnò nella capanna il «sartore» che gli cucì le due «mute». Infine, di nuovo lui «… chiese almeno tre volte a Maria Domenica … di prestarsi in commercio carnale con l’incognito napolitano». Ma soprattutto Nicola Erasmi soccorse il brigante «quando nella sera del 31 luglio rimase gravemente ferito presso le case esterne del Comune di Canepina nello scontro con la forza, così malconcio riparò nella capanna dell’Erasmi, dove esso inquisito si occupò di curarlo, di tenerlo occulto in una macchia…». Il padre e il cugino di Nicola Erasmi, invece, gli procurarono i contatti con vari personaggi, compreso don Nicola Savi, dai quali Romagnoli confidava di ottenere il fantomatico nullaosta.

Più leggere le posizioni di Antonio Moneta (non fu giudicato perché morì durante il processo) e di Giuseppe Benedetti. I due, pastori come l’Erasmi, si prestarono ad accudire Romagnoli quando rimase ferito nello scontro a fuoco su richiesta di Erasmi. In cambio ebbero un po’ di soldi. «Rimanete insieme a lui – chiese loro Erasmi – finché avrà ottenuto delle carte per poter liberamente circolare, le quali gli erano state ripromesse da taluni di Canepina». Moneta e Benedetti, però, facevano il doppio gioco, tanto che furono loro a fare la «soffiata» sul luogo in cui si nascondeva Romagnoli a tale Pietro Mariani, noto confidente delle forze dell’ordine. E Mariani lo riferì subito alla gendarmeria di Caprarola facendo scattare l’arresto del ricercato.

C’era poi un ottavo imputato, Francesco Trombetti, detto «Cartoccio», 31 anni, nato a San Martino al Cimino, celibe, «tagliatore di macchie», arrestato a Canepina il 12 luglio 1667. Era accusato complicità con Romagnoli in tutti i numerosi reati (duplice omicidio, ferimenti, incendio doloso, furto, rapine a mano armata, cattura e disarmo di quattro guardie di polizia) commessi dal brigante dopo il suo arrivo nel Viterbese. Trombetti si unì a lui appena giunto e  ci rimase fino all’arresto.

La sentenza del Tribunale Criminale di Viterbo, come tutte quelle emesse per delitti collegati al brigantaggio, fu durissima: Romagnoli e Trombetti furono condannati a morte; Nicola Erasmi di Angelo alla galera perpetua; il padre Angelo e il cugino Nicola rispettivamente a 7 e 11 anni di prigione «da scontarsi nella Darsena di Civitavecchia»; don Nicola Savi a due anni di prigione, con la sospensione della pena. Antonio Moneta, come detto, morì durante il processo.

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