«Hanno ammazzato Angelinetta co’ diciotto curtellate»
Aveva 18 anni, fu uccisa il 16 giugno 1934 da Picaco, un uomo molto
più grande di lei; fu condannato per direttissima a 30 anni di reclusione
I poeti a braccioVincenzo Dazi di Canepina e Domenico Santinelli di Viterbo
scrissero due componimenti che furono dati alle stampe per essere diffusi
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CANEPINA – Erano circa le 11 quando una drammatica frase, passando di bocca in bocca, raggiunse tutte le case di Canepina: «Hanno ammazzato Angelinetta co’ diciotto curtellate. Jje stato Picaco». Poco dopo una folla enorme era accalcata davanti alla casa della poveretta, dove erano già arrivati i carabinieri per i rilievi. Era la tarda mattinata del 16 giugno 1934. Ma chi era la vittima? Chi era Picaco, colui che fu immediatamente indicato come l’autore di quello che si rivelerà un vero e proprio massacro? Lei si chiamava Angela Meloni, aveva diciotto anni, viveva con la madre e un fratello in via Porta Piagge. Aveva i capelli mori e crespi e, stando ai racconti, sarebbe stata bellissima. Lui, Domenico Corsi, soprannominato appunto Picaco, aveva 36 anni, faceva il calzolaio, viveva nella stessa strada a poche decine di metri dalla ragazza. La vulgata vuole che non fosse un grande lavoratore, che frequentasse con assiduità le bettole e, soprattutto, che fosse un «sempliciotto».
Da un paio d’anni Picaco si era innamorato di Angelinetta. Ad incoraggiarlo, stando a quanto emerse dal processo per direttissima svolto nella Corte d’Assise di Viterbo, era stata indirettamente e inconsapevolmente la madre della Ragazza, Maria. «Quanto è bella Angelinetta» le ripeteva Picaco ogni volta che entrava nella sua bottega per una riparazione. «Tu aggiustami bene le scarpe e fammi lo sconto che te la faccio sposare» rispondeva lei sorridendo. Ma nella mente «ottenebrata» di Picaco, come scrissero i giudici nella sentenza, quelle battute erano suonate come un impegno solenne. E quando Angelinetta si fidanzò con un giovane canepinese di un paio d’anni più grande, Luigi Casagrande, si sentì tradito dalla ragazza e ingannato dalla madre. Da quel momento divenne sempre più forte in lui il desiderio di vendetta.
Si arrivò così alla mattinata del 16 giugno 1944. Verso le 9, Picaco vide la madre di Angelinetta passare davanti alla sua bottega: «Dove vai Marietta?» le chiese. «A Viterbo, devo comprare delle cose» rispose lei. Un’ora dopo, sicuro che ormai la donna era arrivata a destinazione, Picaco prese un trincetto (l’affilata lama usata dai calzolai per tagliare il cuoio) e s’incamminò verso casa di Angelinetta. Come in tutte o quasi le case di Canepina, la chiave di casa era sulla porta, lui la girò e entrò. La ragazza, intenta a riassettare, si trovò davanti quell’uomo con gli occhi sgranati, sudato, con le mani tremanti. Nessuno sa ciò che accade nella cucina: alcune voci di paese vogliono che l’uomo avesse chiesto ad Angelinetta di sposarlo e, al suo rifiuto, estrasse il trincetto dalla tasca e la colpì diciotto volte, il primo fendente alla gola, il secondo al cuore, e poi in tutto il resto del corpo. Altre voci vogliono che Picaco abbia tentato di violentarla e, davanti alla resistenza di lei, l’abbia massacrata a colpi di trincetto. Nemmeno la sentenza della Corte d’Assise ha fatto luce su questo aspetto: Picaco sostenne di averla uccisa perché si era fidanzata con un altro anziché con lui. E nonostante le domande incalzanti dei giudici non aggiunse altro.
Mentre il massacro era in corso, richiamata dalle grida disperate, entrò in casa una cuginetta della vittima. Vide Angelinetta distesa a terra, probabilmente già morta, e Picaco curvo su di lei, la lama nella mano destra e gli abiti intrisi di sangue. «Vattene ho ammazzo anche te» urlò l’uomo. La ragazzina uscì gradando, richiamando così l’attenzione dei vicini. Intanto, l’omicida scappò in direzione del Cimitero.
Subito dopo lo svolgimento dell’autopsia, furono celebrati i funerali della ragazza, a spese dell’amministrazione comunale. C’erano praticamente tutti gli abitanti del paese. Picaco fu arrestato il giorno dopo dai carabinieri. Si era nascosto in campagna, in località Ferriera. Prima che venisse caricato su un furgone cellulare per essere trasportato nel carcere di Santa Maria in Gradi, davanti alla caserma dei carabinieri si radunò una piccola folla di canepinesi che, oltre a riempirlo d’insulti, volevano linciarlo. Quando fu interrogato dal giudice istruttore, confessò subito il delitto, ma nonostante le insistenze del magistrato non volle mai entrare nei dettagli. Atteggiamento che mantenne anche in aula, durante il processo. Il pubblico ministero, al termine della requisitoria, chiese la condanna all’ergastolo. Il suo difensore, l’avvocato Battaglia, che nel tentativo di alleggerire la posizione del suo assistito convocò una quarantina di testimoni al fine di dimostrare almeno la seminfermità mentale, terminò la sua arringa chiedendo il minimo della pena. La giuria prese una decisione salomonica: trenta anni di reclusione. Sarebbe uscito di galera a sessantasei anni.
Il delitto, nonostante il regime fascista non «gradisse» che i giornali dessero spazio alla cronaca nera, ebbe un’enorme risonanza e occupò le pagine locali dei giornali fino alla celebrazione del processo. Contemporaneamente, Vicenzo Dazi, un poeta a braccio canepinese scrisse un lungo componimento che fu addirittura stampato e diffuso. Più di un cantastorie chiese a Dazi di poterlo utilizzare come canovaccio per i loro racconti. Altrettanto fece un altro poeta a braccio, il viterbese Domenico Santinelli. Anche la sua poesia fu stampata. Gli esemplari dei due componimenti sono conservati presso la Biblioteca degli Ardenti di Viterbo.
Di seguito i testi di Vincenzo Dazi e di Domenico Santinelli
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